Vita lenta e pretty woman
Scrivi una cosa breve. Scrivi una cosa breve e facile. Anzi, crea un contenuto: un post carino, con poche scritte, o meglio un video dove parli. O meglio ancora, un video dove non parli, facci un reel. Un reel di quelli brevi. Anzi niente reel, pubblica un carosello di foto. Anzi una sola foto e scrivici qualcosa nella caption, anzi, metti qualche emoticon a caso come caption. Gioco fatto, contenuto pubblicato senza annoiare nessuno.
Esisto sui social: ci sono ma non ci sono più.
Quanto è gravoso il giudizio degli altri?
Non è pesante, perché quando una cosa è pesante lo è oggettivamente, perché possiede la qualità “pesante” come caratteristica. “Gravare” invece è quando il peso viene imposto, viene caricato, l’opinione degli altri non è pesante ma gravosa perché noi decidiamo di accollarcela (altro termine tecnico).
Nessuno scrive più perché nessuno legge più allora nessuno scrive più, che circolo vizioso.
Quasi due anni fa avevo una newsletter, scrivevo tutte le domeniche: mi raccontavo a più di mille persone. Le abitudini cambiano perché cambiamo noi, cambiano le persone di cui ci circondiamo, cambiano i nostri parametri, ed ora il parametro sociale ci impone la velocità, la produttività.
Che novità, eh?
Io invece sto scoprendo la lentezza, a 24 anni.
La scopro, non la riscopro, perché con la velocità noi ci siamo nati: sto scoprendo la colazione a letto ogni domenica mattina, e la cena sul divano ogni domenica sera, mentre recupero gli articoli e le newsletter delle persone dell’internet che reputo interessanti.
Quindi eccoci tornati, a raccontarci con talmente tante parole che non potremmo mai andare virali, ma che c’importa a noi di accollarci il gravoso giudizio dei reel, della loro velocità e dei contenuti senza contenuto?
A farmi riflettere sul concetto di velocità sono stati i vestiti, lo shopping.
E un pantalone di MaxMara da 300 euro.
Sono almeno 2/3 anni che la parola ‘fastfashion’ è diventato il mio/nostro peggiore incubo; nella semantica quando un concetto è troppo astratto si studia come la mente tende a personificarlo, cioè avvicinare un concetto astratto a noi rendendolo umano. Ecco, nella mia testa il fastfashion è diventato una persona. Una persona fatta di tutti i vestiti che ho gettato sulla sedia per tutta l’adolescenza, promettendo a mia madre di rimetterli a posto prima che prendessero vita.
Il mio contrappasso per tutti quei vestiti che rimanevano sepolti per settimane e settimane prima di essere sistemati è stato questo: si sono personificati diventando ad oggi il mio incubo fastfashion. Che mi guarda, seduto sulla sedia (ormai vuota e pulita) della mia scrivania della casa in cui ora vivo senza mia madre, e mi guarda giudicante per ogni acquisto che faccio. Anche quando ho comprato il vestito per il mio compleanno, quello comprato alle bancarelle, Mr. Fastfashion mi guardava giudicante.
Ed io cerco di spiegarglielo che io/noi siamo cresciuti col mito di Bridget Jones, di Carrie Bradshow e la sua cabina armadio, col mito della protagonista di ‘27 volte in bianco’ che conservava ogni abito da damigella d’onore che si doveva accollare, io cerco di spiegarglielo a Mr. Fastfashion che sono cresciuta col mito dell’accumulo.
Fare shopping con me era l’incubo di mia madre, o meglio, della carta di credito di mia madre.
Lo facevamo pochissime volte, anche perché mia madre odia guidare fino al centro città, ma quando lo facevamo bisognava arraffare tutto: un po’ perché chissà poi quando ci saremmo tornate in tutti quei negozi in centro, quindi i capi nuovi dovevano essere tanti per prolungare la sensazione di avere qualcosa di diverso, un po’ perché alla me 16enne nessuno aveva spiegato il concetto di stile, di identità, per cui tutto quello che potevo arraffare arraffavo.
Ma d’altronde, chi doveva spiegarmelo? Mia madre che fino ai 14 anni mi ha mandato in giro con tute fucsia delle winx e magliette aderenti con la stampa di Brontolo o Pisolo?
Andare a vivere da sola, lontano, in una città dove ci sono negozi di vestiti e bancarelle in qualsiasi angolo mi ha fatto scoprire la legge fondamentale dello shopping, che per quanto scontata purtroppo non capivo fino in fondo: più arraffi più spendi.
Ma torniamo al pantalone da 300 euro.
Dopo un’adolescenza passata correndo da un negozio all’altro, cercando di capire cosa fosse ‘alla moda’ e cosa rientrasse nel ‘mio stile’, mi sono seduta.
Mi sono stancata di essere sempre a corto d’aria, sempre arrossata per questa necessità di mantenere una velocità non mia, non naturale, e mi son ritrovata seduta in una camera due metri per due a Roma, seduta su una pila infinita di vestiti accumulati.
Ho passato questi sei anni romani a fare cernite su cernite, a regalare vestiti a tutte le persone che passavano dal mio armadio, e finalmente mi sono ritrovata con due scatole vuote e pronte ad essere riempite, con consapevolezza.
Dopo quasi sei anni qui a Roma, i miei signori Genitori sono venuti a trovarmi solo per la voglia di vedermi, senza dover fare altro. E il primo desiderio che ho espresso è stato fare shopping.
Mi sono preparata per scendere in battaglia, pronta per camminare chilometri e chilometri, pronta a fermarmi ad ogni negozio, a schivare le lamentele di mia madre sulle distanze da percorrere, a colpire chiunque potesse mettersi tra me e l’ultima t-shirt taglia M dell’immensa pila del bancone centrale del negozio, pronta a sgomitare per arrivare alla cabina prova. Dopo il giusto stretching fatto in vista di tutte le buste che avrei dovuto portare, siamo usciti.
Via del Corso.
Finale della storia? Sono rientrata in casa con una sola bustina, una di quelle piccole, con una sola camicetta. Sono rientrata con i piedi a pezzi, un gelato nello stomaco e una foto sul cellulare di me nei camerini di MaxMara con un pantalone da 300 euro.
Il bottino di due ore di shopping era composto da una camicetta e una foto sul cellulare.
La velocità con cui siamo nati in me si è sempre tramutata nella fretta di arraffare, la fretta di cambiare e la necessità di ricevere nel minor tempo possibile dei risultati.
Un bottino.
Scoprire la lentezza è stato ritrovarla e riconoscerla nel bottino di quel weekend: una sola camicia ed una foto. In quella foto c’è il racconto di un’ora e mezza in cui non ho corso per arrivare ad un risultato. Un’ora e mezza in cui sono entrata in un negozio, di quelli che non frequento perché chi diavolo se li può permettere quei prezzi?
Ma ho lasciato che i miei genitori si sedessero su quei sofà, mentre due commesse con lo stesso tailleur lilla offrivano acqua e succo di frutta, neanche fossimo in Pretty woman, e li ho lasciati lì ad aspettare, rilassarsi, e guardarmi.
Mentre le stesse due commesse mi portavano pantaloni eleganti, maglie, giacche e tacchi. Come in un film, come in quei giochi del nintendo dove dovevi creare gli outfit su dei manichini, mi sono divertita a trasformare i miei genitori in Richard Gere e diventare il manichino di me stessa, mentre provavo capi su capi che mai avrei comprato.
Unico bottino: una foto sul cellulare.
Eppure, tornando a casa senza nessun risultato concreto, avevo la sensazione sulla pelle, negli occhi, sotto le unghie di aver assaggiato quella vita lenta di cui tutti parlano.
Non ci piacciono le cose lente perché ci hanno insegnato ad associare la lentezza alla pigrizia, e leggere (così come scrivere) è una cosa lenta.
E forse è questa la ragione migliore che mi spinge a tornare con la newsletter.
Spero di esservi un po’ mancata, con amore
Adelio