Se Dio soffiasse alla mia finestra
Carissime lettrici e carissimi lettori,
io con le persone anziane non ho mai avuto un bel rapporto.
Mi hanno sempre fatto paura, un po’ perché da bambini le favole che ci raccontavano avevano sempre come antagonista qualche strega cattiva e vecchia, con le rughe, gli artigli, la pelle cadente, la voce roca e spesso anche senza denti.
Un po’ anche perché i nonni non li ho, e le mie nonne invece non venivano fuori propriamente dalle pubblicità della Mulino Bianco. Ora ne ho solo una, che ha 90 anni suonati, è senza denti ed è talmente senza filtri che ogni tanto ti fa ridere come non mai e ogni tanto ti fa piangere come non mai.
L’altra nonna non l’ho mai conosciuta davvero, la vedevo di rado e di cose in comune per quanto ne so c’avevamo solo il nome.
Quando la gente esce dalla nostre vite facciamo una cernita, ciò che vogliamo tenere di loro e ciò che invece vogliamo lasciare andare. Di questa nonna non ricordo nulla, non ho tenuto con me niente, fuorché un odore: le patate fritte.
D’estate, quand’ero bambina, una delle prime sere di Luglio si andava tutti in questa casa in campagna in cui nessuno abitava, messa anche piuttosto male. Ci radunavano tutte, e tra sorelle e cugine gli adulti arrivavano a raccogliere 5 bambine femmine su un dondolo verde, tutte messe in fila solo per la consegna delle patate fritte.
Queste patate che venivano messe a riposare in uno scolapasta riempito di scottex, per catturare l’olio di troppo.
E mentre il cielo rimaneva rosa anche se erano le 21 passate, mentre le cicale ci circondavano senza farsi vedere, ed il freschetto degli inizi di Luglio portava le madri ad andare a recuperare le giacche di jeans lasciate in macchina, portate perché “con questo tempo non si sa mai”, mio padre con una sola forchetta per tutte e cinque imboccava queste patate fritte, bollenti, salatissime e ancora zuppe d’olio. Potevamo tranquillamente aspettare per mangiarle, ma nessuno ne era veramente in grado.
Gli adulti facevano da sfondo:
mia nonna chiusa in cucina per friggere chili e chili di patate, ricordo lo sfrigolio dell’olio, ricordo l’odore che rimaneva sui capelli per giorni, ricordo anche la pesantezza dei suoi movimenti, eppure me la ricordo sullo sfondo.
mia madre e mia zia che recuperavano giacchette leggere per il vento, o si occupavano delle bevande, o degli spray contro le zanzare, o di qualche inciucio familiare che doveva essere sicuramente importantissimo e assolutamente da nascondere alle bambine, ma anche quello era sullo sfondo.
Mio padre e mio zio che gironzolavano in cucina, senza sapere esattamente come muoversi, loro non me li ricordo sullo sfondo. Loro me li ricordo presenti ma semplicemente perché non me li ricordo adulti.
Che forse agli uomini veniva data l’opportunità di crescere meno in fretta, senza la responsabilità di doversi occupare di giacche per il vento, di spray per zanzare, di inciuci familiari, loro girovagavano nella cucina con l’obbligo di non cucinare e non sistemare in quanto maschi, per cui potevano divertirsi come noi bambine. E allora me li ricordo mentre cercavano di rubare le polpette appena tirate fuori dall’olio, e mentre di nascosto ci portavano le patate, rigorosamente ancora nello scolapasta, rigorosamente con una sola forchetta per cinque.
Ho deciso di conservare solo questo ricordo, che era per me l’inizio dell’estate.
Perché dopo aver mangiato quelle patate (che fingevano di sfuggire alla vista delle donne, che erano le vere adulte) si correva attorno a questa casa che sembrava immensa, che c’aveva anche un ulivo piazzato al centro, e si guardavano le stelle.
E gli adulti continuavano la nottata parlando di cose da adulti, facendo cose da adulti, e noi avevamo la possibilità di non capire. Anche se volevamo, perché possedevamo tutta la curiosità del mondo, potevamo non capire. Avevamo la possibilità di lasciarci colpire dal sonno e addormentarci sulle spalle di qualcuno di loro, perché tanto qualcuno c’avrebbe retto la testa, c’avrebbe preso in braccio, portato a casa, infilato un pigiama leggero, coperto con un lenzuolino e dato la buonanotte.
La mia domanda di questa settimana per voi è: quante cose ci dimentichiamo? Quanto è grande la nostra memoria, e quanto è egoista nello scegliere cosa custodire senza consultarci?
Io avevo dimenticato quell’odore; quell’odore di citronella, di patate fritte, di ulivi, l’odore di finto profumato della cipria di mia madre e dello spray per le zanzare. L’odore dell’estate che stava per iniziare.
A 19 anni io ho smesso di parlare il mio dialetto.
Un po’ di contesto per chi non mi conoscesse da un po’: io sono Calabrese, ormai romana perché abito qui da una vita e mezza, e abito qui per fare l’attrice, per cui il mio dialetto l’ho salutato appena ho finito di fare il primo trasloco.
Dicevo: a 19 anni ho smesso di parlare il mio dialetto, anzi, ho proprio iniziato a parlare il romano. Che spesso la “l” mi diventa “r”e tronco la maggior parte delle parole, ed ero quasi convinta di aver dimenticato quella parlata che ormai con la mia voce non risuonava più.
Poi mi hanno presa per un film (che spero vedrete presto) e per quasi due mesi non ho fatto altro che parlare il “dialetto dei miei genitori”, ed ora nella quotidianità ogni tanto raramente quando proprio sono molto stanca o sovrappensiero può capitare che “il dialetto dei miei genitori” caschi di nuovo all’interno della mia bocca, e allora divento una Sirena che ammalia se stessa. Come le sirene di Ulisse, non faccio in tempo a coprirmi le orecchie con la cera che ascoltandomi mi ammalio, e mi riporto in quella casa con l’ulivo, e le patate fritte.
Quando ho scritto la prima bozza di questa newsletter scrivevo così: “siamo la generazione dei malinconici, di quelli cresciuti col covid, con la crisi climatica e con le guerre social su chi è più femminista di chi”.
E continuo a pensare che sia tutto vero eh, per carità; ma la verità è che la malinconia non è della nostra generazione, o almeno non è solo della nostra generazione, ma è il sentimento umano più antico.
E non lo dico io: lo dicono i miei amici, lo dicono quelli più grandi, lo dice l’arte, lo dice la letteratura contemporanea, ma soprattutto lo dice la letteratura medievale. Boccaccio a metà del ‘300 lo diceva, che la malinconia è la presa più forte che possa stringersi attorno all’uomo, a tal punto da farlo ammalare.
Ecco, io in questa newsletter voglio parlarvi della malinconia della curiosità. Voglio sapere dov’è finita. Perché da bambini, quando avevamo la possibilità di non capire, volevamo a tutti i costi sapere. Ed ora quasi abbiamo dimenticato come fare ad essere curiosi, dimenticato per cosa essere curiosi.
Un po’ come il nostro Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che nella serata conclusiva per l’assegnazione del premio strega (in cui lui era presente anche in quanto votante) si è lasciato sfuggire di non aver letto i libri candidati, potenzialmente neanche quello che ha votato.
Ma Gennaro sarà stato anche lui un bambino curioso, no? Si sarà chiesto ogni tanto anche lui di cosa parlavano gli adulti, nel loro mondo così adulto con quel loro linguaggio così adulto, no?
Insomma, tutte queste parole con queste vibes un po’ romantiche e un po’ malinconiche le volevo utilizzare per andare a ripescare quelle sensazioni lì, quella curiosità lì che ogni tanto è bene rispolverare.
Ma non sempre, tipo rispolverare il ricordo della casa in campagna, da dove si vedono le stelle e col venticello che tira la sera, non è stata una grande idea se ci si ritrova su un divano che ha un copridivano di lana, in un piccolo appartamento al quinto piano situato in un circondario chiuso in cui non passa un filo d’aria neanche se Dio si ci mettesse d’impegno e si mettesse a soffiare fuori dal mio palazzo.
A priori da ciò, vi aspetto la prossima settimana, con amore
Adelio