Racconti che tornano storie (e stelline)
Carissime lettrici e carissimi lettori,
non mi leggete da un po’, e magari di questo se ne parlerà pure prima o poi, ma oggi è tutta un’altra storia.
Prima di iniziare la lettura, un consiglio: io ho scritto questa newsletter con questa playlist, magari avrete voglia di leggerla anche voi così.
Hannah Arendt diceva una cosa (non la nomino perché voglio fare l’acculturata, è che a forza di citarla nella tesi mi sta uscendo dalle orecchie) comunque, torniamo a noi. Hannah Arendt diceva questa cosa qua: tutti noi abbiamo una storia, ed abbiamo una storia perché abbiamo una vita che inevitabilmente ci connette alle altre persone; non tutte le persone però hanno il privilegio di vedere o sentire la loro storia diventare racconto.
Per avere un racconto c’è bisogno di:
qualcuno che ascolti. Banale no? Avete presente quando le persone vi parlano, e vi parlano magari anche di cose interessanti, però sotto c’è un ronzio. Una terrificante mosca che vi suggerisce che per cena dovreste proprio andare a comprare le piadine, quelle in sconto al nuovo supermercato aperto vicino casa. Allora quando poi riacquistate l’attenzione sul racconto dovete pure essere bravi/e, fingere di non aver perso totalmente un pezzo del racconto. Ecco, ascoltare è difficile.
qualcuno che parli/scriva. Ed anche questo è difficile. Arendt fa tutta una differenza tra quando la tua storia la racconti tu o qualcun altro, ed io questo passaggio lo eviterei, se no dovrei allegarvi tutto il primo capitolo della mia tesi di laurea. Ma trasformare una storia (anche la propria) in un racconto è difficile. Bisogna scegliere con cura quale porzione della propria storia raccontare, puntare bene lo sguardo, scegliere le parole giuste, e le parole occupano un tempo ed uno spazio, sono invadenti.
Ecco, il succo è che: raccontare è complicato.
Ecco un’altra cosa complicata: il personale.
Anche questo non lo dico io eh, lo dicono le grandi studiose, le ricercatrici, che il proprio personale implica parte della nostra identità, e come si fa a parlare -non dico della nostra identità- ma del nostro personale? Per capirci meglio: è quando raccontiamo a qualcuno, anzi, confessiamo a qualcuno una parte brutta della nostra storia, una parte triste. Eppure non soffriamo, quel racconto lo abbiamo trasformato. Il soggetto della storia triste, che siamo noi, è diventato oggetto. Così il dolore sembra allontanarsi, almeno un po’.
Ecco, oggi in questa newsletter di Natale, facciamo cose difficili: uniamo il personale al racconto. Perché il Natale è già un giorno semplice, perché non complicarlo ancora di più?
Negli anni passati la newsletter di Natale l’ho sempre scritta per le persone che mangiavano della semplice pasta al sugo in camera loro, per chi si chiude in bagno pur di non sentire i parenti, per chi fa talmente tante pause sigarette da finire tre pacchetti e prendersi il raffreddore (perché no, nelle pause sigarette la giacca la si deve sempre dimenticare sulla sedia). L’ho scritta per chi aveva una tavola piena ma un posto vuoto che faceva per sei, per chi una tavola non ce l’aveva proprio, per chi gioca con i nipoti e figli non ne ha, per chi parla di lavoro ed il lavoro non lo ha, per chi sta combattendo con gli esami e ha solo cugine laureate, per chi sa che la propria fidanzata ad un tavolo di omofobi non la potrà portare mai, questa newsletter è sempre stata per tutti noi.
Italo Calvino (che io amo sempre citare) diceva che la condizione umana più antica dell’uomo, il sentimento più vecchio e primigenio, è la malinconia.
Apro una piccola parentesi sul mio personale: quest anno non è stato semplice. Ora che sto meglio racconto alla mia psicologa che visualizzo il mio corpo come un enorme telo nero, ma in realtà non è un telo, è un cielo notturno. Un cielo notturno quieto, senza nuvole, con due piccole stelline: c’è la stellina della paura e la stellina della malinconia.
La mia stellina della malinconia è abitata da eventi che non sono accaduti: provo nostalgia per ciò che non è accaduto, ma ho vissuto sognandolo ad occhi aperti, per ciò che ha avuto respiro solo nella mia testa. Provo nostalgia per quel fidanzato che anche quest anno mia zia non conoscerà, per quel bacio dato sull’angolo del labbro che non riceverò, per quella mano stretta sotto il tavolo. E provo nostalgia per le famiglie che si spezzano, per le pubblicità che mostrano tavole piene di gente, mannaggia alle pubblicità!
Ma ora sono qui, immaginatemi così: seduta su un vecchio tappeto, chiaramente per terra, con un pile ed i calzini con la faccia di Babbo Natale che si abbraccia (uno ha perso un occhi, l’ho fatto cieco, è persino un po’ inquietante), vicina al mio piano, con una stufetta che mi riscalda, e ho chiesto a tutti e tutte voi di scrivere.
Scrivere del vostro personale.
Voi l’avete fatto, ed io vorrei accompagnare questa vostra vigilia o questo vostro Natale (in base a quando sentirete il bisogno di leggere) con le vostre storie. Con i racconti di chi sta come noi, o magari peggio, o magari meglio, ma oggi daremo importanza a tutti i racconti, tutti i personali. Trasformerò alcune delle vostre storie in racconti, altre le lascerò esattamente così come le ho ricevuto, e tutto ciò che leggerete in corsivo è ciò che mi avete scritto voi. Preso ed incollato.
Perché sì, anche io come te.
Francesco R.
Francesco ci regala una poesia, mi ha persino fatto un regalo personale: poterle dare un titolo. Allora questa serie di racconti la inauguriamo così, con una poesia che si chiama:
“Pallido girovagare”.
Un'altra pallida luna avrà la meglio sul mio corpo argenteo. Pleiadi, voi lo sapete! Non misuriamo il tempo in secondi, ma in nebbiose palpitazioni dell'anima. Li chiamiamo sogni.
Francesco dice che non è convinto che ciò che scrive ha così tanto valore, quindi mi sembra un perfetto motivo per pubblicarlo qui. Il suo anno non è stato un grande anno (ha detto “del cavolo”, che carino, non voleva usare parolacce) però ha iniziato ad andare in terapia, ha iniziato un corso di disegno e pubblicheranno 12 delle sue poesie, forse caro Francesco R. hai più valore di quanto pensi.
Di tutti questi traguardi però rimane insoddisfatto, anche lui ha la sua stellina nel sul cielo pacifico nero: “Tanti bei traguardi, tante belle cose viste, eppure resto perennemente insoddisfatto. Mi rifaccio al tuo post "ma di tutti (tutto?) come non ci fosse nessuno (o niente)".”
Noemi D.
Noemi è l’ultima di tre sorelle, ma quando dico ultima intendo proprio ultima ultima: otto e undici anni di differenza con le più grandi. Ha passato un’infanzia di rumori: di canzoni sotto la doccia, di porte che sbattono, di bagno occupato in tre, di continue battaglie che ogni sorella minore conosce. Finché un giorno qualcuno ti spiega che le tue sorelle sono cresciute, che il bagno di tre diventa di due, e poi ci si ritrova con un solo spazzolino. Che sotto la doccia nessuno canta più, che anche le battaglie sono finite. Noemi apre i regali la sera della vigilia e la sua stellina della tristezza nasce qualche giorno prima, quando si rende conto che, ad aprire quei regali con i suoi genitori, ci sarebbe stata solo lei. Però quest anno torneranno ad essere tre: tre spazzolini, tre asciugamani, tre bicchieri, le stesse battaglie di prima, le stesse canzoni sotto la doccia di prima. Quest anno ci si siede e si aprono i regali la sera della Vigilia, però in cinque.
Intermezzo letterario
Gli intermezzi, i consigli letterari io li ho sempre inseriti. E quando Deborah D’Addetta scrive io non posso che leggere, segnare e riportare anche per voi.
Comincio con un’opinione scomoda: Occhi blu capelli neri di Marguerite Duras, a mio avviso, è una spanna sopra al suo più celebre L’amante. Occhi blu capelli neri viene pubblicato in lingua originale nel 1986, quindi due anni dopo la pubblicazione de L’amante. Credo sia importante questa precisazione perché i due romanzi brevi sono profondamente connessi. Come ha dichiarato lei stessa, dello stile se ne fregava. La sua è una tipologia di scrittura che si svincola da qualsiasi etichetta, una scrittura quasi primitiva, atemporale. Le sue storie d’amore in disfacimento potrebbero essere qui e ora oppure mille anni fa, non cambierebbe nulla, perché il fulcro centrale della narrazione non è il dove o il quando, ma il come. Se anche è vero che l’autrice ha dalla sua parte l’arma dell’esotismo, ciò che emerge ne L’amante, ma ancora di più in Occhi blu capelli neri, è il dominio del desiderio. Un dominio tiranno. È vero anche che i personaggi sono diversi, ma gli amanti del secondo romanzo hanno gli stessi dubbi e le stesse urgenze dell’adolescente di quindici anni e del miliardario cinese. La differenza è nell’annullamento assoluto della cornice, dell’ambiente: in Occhi blu capelli neri i due amanti sono chiusi in una stanza. Fine. Avviene tutto lì: il sesso, il dolore, l’accettazione e il rifiuto, la pulsione di morte, il pianto e la lascivia. L’abbandono liberatorio (o forse no) alle urla della carne. La gelosia inaspettata. Una lettura che, nonostante l’erotismo e la straziante confusione dei due amanti, è dolcissimo.
Maribel
La storia natalizia di Maribel comincia con un’aggressione: mentre tornava in hotel da una cena di beneficenza tentano di rapinarla. Il 19 Dicembre del 2023 è il giorno più brutto della sua vita: trauma cranico, ginocchio sinistro operato, menisco, crociato anteriore e collaterali. In pieno periodo natalizio, con la nostra protagonista bloccata tra poltrone e stampelle, c’erano i film brutti di Natale sempre in onda in Tv e un pranzo incasinato pieno di movimenti di mani. C’era la voglia di stare insieme, la voglia di casa, la gratitudine per essere lì. Maribel abita fuori, ed ora che torna la mamma la guarda con occhi lucidi. Lei cammina in giro per casa e tenta di aiutarla in tutti i modi che può, in tutti i modi in cui le mamme si fanno aiutare. Maribel ci dice che sono importanti le piccole cose: il tempo che guarisce le ferite e paradossalmente è lo stesso tempo che immobilizza i ricordi, che cristallizza le decorazioni fatte all’asilo da lei e dai suoi fratelli, chiaramente ancora appese all’albero.
Anna A.
Il racconto di Anna parla di un amore finito, possiamo prepararci per le lacrime. Tra tutti e tutte voi c’è Fabiana DP. che mi ha detto che la sua storia natalizia -più che storia, è una tradizione- è guardare Bridget Jones dopo aver mangiato. Noi persone della newsletter, invece della Bridget, avremmo la nostra Anna. Anna che la prima cosa che mi viene in mente è Lucio Dalla: “Stella di periferia, Anna che vorrebbe andar via”. Anna ha un amore finito e la paura dello sguardo degli altri: sguardi di compassione, dubbiosi, forse anche giudicanti. Parenti che l’abbracceranno con troppa foga, che le lasceranno addosso tutti i loro odori, lei che si sente troppo stretta, e poi le domande. Uff, le domande, e gli scherzi? Quei ricordi che vengono sempre fuori e poi, sempre troppo tardi, ci si ricorda che sì, in quell’episodio c’era pure lui. Lui che se non lo nominavamo era meglio, grazie zia Genoveffa, potevi farne a meno, ma grazie. Ma mentre son tutti lì, a tavola, con tutti i posti occupati, e mangiano la loro carne e bevono il loro vino, Anna si rende conto che di lui non le manca nulla. Non le manca la sua voce, non le manca il suo profumo, non le mancano neanche le battute che potenzialmente avrebbe potuto fare con zia Genoveffa, l’unica che le avrebbe capite. Mentre tutti parlano Anna vede un pizzico sul pavimento, si alza solo lei, perché gli altri non lo notano? C’è qualcosa che non va nel suolo. Una piastrella che sta venendo via, lei tira, tira, tira via e crea un solco, tra lei e tutto il resto c’è un vuoto, un buco che il suo amore ha lasciato. Non ha perduto una persona, ha perduto un amore. Quello come si recupera? Quando una storia finisce, tutto l’amore dove se ne va?
Charlies
Charlies ha deciso di regalarci una storia, mi è venuto d’istinto trasformarla in favola:
C’era una volta la Signora Gambera, solo che in mezzo al mare le creature non sanno come si chiamano, non conoscono i loro nomi, loro nuotano e se ne fregano di dare un ordine alle cose. Per cui sarà solo per noi e per la favola “La Signora Gambera”. La Signora Gambera ogni mattina adorava andare avanti ed ogni pomeriggio adorava andare indietro, era la sua passione, ed era anche comodo! Ogni mattina la Signora Gambera vedeva piccole tartarughe nuotarle incontro, andavano nel verso opposto al suo, e la salutavano sempre! Con estrema gentilezza anche. Il piccolo Line tra tutti però era il suo preferito: la spingeva un po’ dalla coda, facendole fare più capriole alla volta, e lei tutta euforica lo seguiva. Una capriola, due capriole, tre capriole, La Signora Gambera era felicissima! Il pomeriggio invece tornava indietro, ma di schiena, con la coda degli occhi vedeva sfilze e sfilze di pesce spada andare nella direzione opposta; lei ne era incantata, per i colori meravigliosi che avevano, anche se spesso la pungevano, nuotavano così veloci da colpirla, la danneggiavano. Una mattina un polipo di passaggio restò a guardarla per tutta la giornata, restò ad osservare le risate della Signora fatte al mattino, timide e sottili, e poi il pomeriggio, quando piangeva piccole lacrime leggere, per le punture dei pesci spada, tentando di nasconderle. «Ma lei è proprio Pazza, Signora Gambera» gridò ridendo, prendendola in giro, attirando l’attenzione di tutti. Nessuno dei pesci presenti rise, neanche il pesce pagliaccio. Tutti sapevano che i gamberi vanno avanti e indietro, avanti e indietro, che sono nati così. L’ignorante era solo lui.
Mi andava di trasformare la storia di Charlies non in un racconto ma in una favola: lei ha il disturbo borderline di personalità, e parole come “pazza”, “esagerata” e “inappropriata” per i suoi momenti di euforia erano proprio come quelle del polipo. Poi però si cammina all’indietro, il mondo va sottosopra, e invece dell’euforia si apre un vuoto all’interno dello stomaco che risucchia tutto dentro, che si porta via tante cose, che potrebbe prendersi delle volte i granelli di sabbia con tutto il mare. La Signora Gambera lotta per passeggiare ogni mattina, che vivere le piace tanto.
“Abbiamo la necessità di non sentirci invisibili […] per favore, sii gentile con chi ti sta attorno, stai vicino alle persone che ami e non dimenticarti mai di chi ti guarda con l’amore negli occhi, sarà la tua forza, non sei mai solo.”
Maria Pia S.
Maria Pia ha viaggiato, molto. Ha visto Bologna, che c’ha i tortellini buoni, ha visto Padova e Ferrara, non so cosa si mangi lì ma sicuro sarà stato buonissimo, e poi ha visto Venezia, che sembra un quadro dipinto. Maria Pia ha persino messo in piedi un club del libro, magari tra un treno ed un altro. Il fatto è che la voglia di fare tutte queste cose ad un certo punto arriva; e tu mi dirai, come? Quando? Ah boh, non so. Una mattina ti svegli e ti rendi conto che forse la forza per lavarti i denti l’hai trovata, per alzare le tapparelle ancora no, però i denti sì, che l’igiene dentale è importante. Il giorno dopo ti rendi conto che c’è qualcosa che puzza, che puzza veramente e non sei tu, cioè sì magari un po’ sei anche tu, pero a ‘sto giro non sei tu. C’è qualcosa sotto il letto: del cibo vecchio. Ci sono piatti vuoti incrostati, fazzoletti unti, c’è quella ciambella che pensavi di non aver portato in camera e invece sì, ce l’avevi portata. Ahh! E no, sotto il letto quegli animaletti brutti, quelli inutili, quelli sottili e lunghi (io li chiamo gli animaletti della polvere) non ci possono stare. Allora ti lavi i denti e lavi pure sotto il letto, ormai ci sei, tanto vale lo straccio passarlo per tutta la stanza, ma sempre con le tapparelle chiuse, ed i denti puliti, che l’igiene dentale è importante. Poi una mattina hai la stanza in ordine, i vestiti piegati, quasi quasi ti viene pure voglia di pettinarti i capelli. Non hai più un fidanzato, dove l’ho perduto il mio amore? Tra gli animaletti della polvere? L’ho scacciato insieme a loro? Non volevo eh, cioè era per me, per il mio bene, perché un po’ di polvere andava levata, un po’ di cose vecchie. Ti viene voglia anche di mettere lo smalto alle unghie: hai lo smalto ma non una delle tue migliori amiche. Perché? Per avere le unghie colorate dovevo perdere anche lei? Era uno scambio? E a me questo mica qualcuno me l’aveva detto. Alla fine la protagonista della nostra storia ha persino cambiato facoltà, l’ha cambiata quando ha aperto finalmente le tapparelle di camera sua, ma non prima di essersi lavata i denti, che l’igiene dentale è importante. E poi è partita. Ed è ripartita. Ed è ripartita.
Rossella DP
C’era una volta (e sì, anche per la nostra Rossella abbiamo bisogno delle favole, quindi ricominciamo) c’era una volta un mondo in cui ogni donna, o chiunque si sentisse tale, nasceva con un talento particolare: la marionettista. Ed essere marionettiste mica è un mestiere facile. Intanto perché ci sono due tipi di marionette, la prima è la più semplice: è quella dove infili la mano dentro, una sola. E alle donne capitava così: loro nascevano, crescevano, ad un certo punto forse perché si innamoravano, forse perché lo desideravano tanto, spesso anche senza desiderarlo, totalmente a caso veniva messa loro in mano una marionetta. La dovevano indossare senza poterla togliere mai. La marionettista prova un senso di cura tutto suo verso la propria marionetta: le dipinge gli occhi, le sopracciglia, i denti, la maggior parte di loro prendono la stessa identica fisionomia delle loro marionettiste, o comunque c’assomigliano molto. Le marionettiste, dopo averle sistemate, colorate, dopo averle vestite, le crescono. Le cibano, le curano, insegnano loro con pollice e indice come muovere prima le mani, poi le braccia. Come sfiorarsi le guance, come pettinarsi i capelli, anche se questo alle marionettiste piace sempre molto farlo loro, è la coccola che riservano alle loro marionette. Insegnano loro come cambiare abiti, come slacciare e poi riallacciare i bottoni! Poi però quelle crescono, e lì diventa complicato, quando le marionette iniziano ad avere arti, articolazioni, giunture, fili, tanti fili. Le marionettiste sono nei guai, devono re-imparare il loro mestiere, con questa nuova marionetta bisogna usare due mani. La marionettista impara come far stare in piedi la sua, con molta fatica eh, che quelle sono pigre. Le insegna a piegarsi, a sorridere, a carezzare i fiori, a carezzare le altre marionette. Le insegna la cura, il bene, la gentilezza, in segreto dalle altre marionettiste le insegna persino a truccarsi, così le dà un nome: Rossella. Perché c’aveva queste guance tutte rosse, ma rosse rosse eh, non un rosso naturale, un rosso da ho sbagliato le quantità di colore ma non lo ammetterò mai a me stessa. Le marionette girano tra di loro, fanno amicizia, iniziano persino a capire anche cosa le appassiona. A che le acrobazie, a chi i vestiti, a chi la recitazione, a chi la danza. A Rossella piaceva girare, girare su se stessa, per mostrare quanto fosse bella. Quanto fosse bella la gonna di tulle viola che la sua marionettista le aveva fatto indossare, quanto fossero belle le sue guance così diverse, quanto fosse bello il suo nome. Lei gira, gira, gira, incantata dai milli fili che tengono in piedi le sue gambe, le sue giunture, le sue ginocchia. Gira, gira, gira, vede i suoi capelli morbidi andarle contro il viso, e gli altri fili! I fili delle braccia, quanto sono belli, quanto sono eleganti quando la fanno girare, lei gira, gira, gira, gira talmente forte che tutte le altre marionette si spostano, si distanziano da lei. Un po’ vogliono lasciarle spazio, un po’ hanno paura. Paura per tutti quei fili, tutto quei fili ingarbugliati, la chiamano, le gridano che va troppo veloce, che non c’è bisogno, che la stavano guardando tutti, ma lei non sente, lei gira, gira, gira, gira finché non sente più niente, il silenzio. Si ritrova a terra, non riesce a muoversi, affianco a lei ci sono tanti fili e i due pezzi di legno di legno a forma di x, i pezzi di legno con cui la marionettista la guidava. Le altre marionette la guardano incredula, una marionetta senza marionettista. Rossella non riesce ad alzarsi, non può muoversi, eppure fa l’unica cosa che il suo istinto la porta a fare: «mamma» grida, «mamma». Alza lo sguardo, non l’aveva mai fatto da quando era cresciuta, da quando era diventata anche lei signorina. Tutte le marionettiste a quel richiamo d’aiuto lasciano andare i loro pezzi di legno, come se con un nome solo fossero state richiamate tutte in aiuto: sul palco una sfilza di marionette immobili che guardano lei, la colpevole. La marionettista di Rossella allunga le braccia verso di lei, eppure non la prende. Sposta quei pezzi di legno, più e più volte, la libera dai fili che l’avevano aggrovigliata, che l’avevano fatta cadere. Silenzio. La Marionettista non sembra avere intenzione di prenderla, Rossella rimane stesa sul pavimento a fissarla. Restano tutte lì a guardarsi, nessuna delle altre marionettiste si piega verso di loro, possono muoversi da sole. Con tutti quei fili di corde spesse che appesantiscono i loro movimenti, con tutte le loro difficoltà, possono comunque muoversi da sole. Quando alzano lo sguardo le marionettiste sono lì, guardano sorridendo, il loro lavoro l’hanno svolto.
“Ma nonostante tutto, cercare il bello in ogni giornata, in ogni momento, per ricordarle e forse anche un po’ per ricordarmi che il bello esiste, che siamo state tanto fortunate a viverci”
Sharon T.
La storia di Sharon è un racconto d’amore, anzi più che un racconto è una dichiarazione, e mi fa sorridere come il Natale lo si associ all’amore. Vorrei sapere da dove è partito tutto ciò, chi ha deciso che sotto il vischio dobbiamo baciarci, che sotto le luci c’abbiamo tutti e tutte voglia di innamorarci. Sharon si è innamorata di una testa riccia, così, senza neanche averlo visto bene; lei sapeva già, senza bisogno di elaborare o capire niente. Sharon lo ama come ama il rosa, come ama le risate, la gioia, e vorrebbe vivere tutto ciò per sempre. ‘Mbe grazie Sharon, hai regalato con il tuo Alessandro a questa newsletter una piccola quota rosa.
Sara DM
Il racconto di Sara non è in Italia, o almeno non del tutto. Sara vive in Germania, torna poco a casa e ancor meno sente il Natale. E come non capirti Sara? Intanto: la Germania. Magari dalla tua finestra vedi qualcuno che timidamente l’albero l’ha preparato, che le lucine sul balcone le ha messe, senti qualche bambino ridere, qualcuno che inizia ad aspettare Babbo Natale da Novembre, qualche mamma che da Ottobre inizia con la tiritera: “se non fai il bravo finisci nella lista dei cattivi”. E tu? Tu che fai? Ci vai al discount a comprare un alberello, di quelli piccoli, già montati, che puoi mettere sul mobile all’ingresso? Ne vale davvero la pena? E se lo prendi, devi prendere anche le luci? Che se l’alberello è così piccolo, con tutte le luci che avanzano che ci potresti mai fare? Le dovresti allungare sul mobile, magari per terra, ecco! Le stendi sul bordo del pavimento. Così a quella piccola festicciole di Natale che organizzi con gli amici tedeschi (che poi tutti tedeschi non sono mai) c’è l’inglese, quello biondino, quello che pensavi che magari alla fine ci poteva uscire anche una mezza serata interessante, ecco quel biondino prima ha calpestato una delle lucine sul pavimento, poi per scusarsi si è voltato verso di te, gli è caduta la birra dal bicchiere di plastica, gli è inesorabilmente finita sulla presa e la festa è finita. Cortocircuito, due candele accese in soggiorno che neanche profumano e calzini ovunque, perché a Natale ci regaliamo tutti sempre calzini. Allora decidi di tornare a casa: per prendere un biglietto di sola andata spendi lo stipendio di un mese intero di lavoro, per tornare in Germania speri che la nonna e la zia ti allunghino qualcosa invece di regalarti la collana con il pietrozzo blu cobalto falso. E nell’aeroporto code, e code, e code, la gente che ha prenotato la lounge ti guarda con aria di sfida mentre tu, con uno zainetto e tre giacche addosso -strategicamente indossate per non imbarcare una valigia- sei sudata alla ricerca del Gate. Perché l’hanno cambiato, di nuovo, sì, per la terza volta. E quando arrivi in Italia, sudata, senza alcuna ora di sonno, con tre giacche e uno zainetto in cui hai potuto mettere solo un jeans e due maglie, forse forse Sara era meglio che rimanevi in Germania. Poi ti chiedi: perché non sento il Natale? Embè! Ma c’è qualcuno che ti aspetta, che ti stringe anche se puzzi del vecchietto che era seduto accanto a te in seconda classe. La casa dei tuoi ha la luce, che comunque è già un punto in più rispetto alla tua che non ha più corrente, ma questo sarà un problema di dopo. E qui c’è un albero enorme, e qualcuno ti ha persino aspettato: c’è una pallina che non è sull’albero, è sul tavolo, aspettava te. Allora ti rendi conto che è sempre stato Natale: dall’inglese che ti ha dato un dolce bacio sulla guancia per chiederti scusa, alla signorina dei biglietti in aeroporto che ti ha augurato buone feste, fino a quella pallina in attesa sul tavolo. Ti rendi conto che ce l’hai sempre avuto attorno.
Dora DR
La signora Dora ha più di 90 anni e ha vissuto quasi tutta una vita da sola. Aprendo le finestre ogni mattina, fumando una sigaretta osservando il fruttivendolo che portava le casse di pere, cambiando le tende ogni tre giorni, cucinando carne al sugo ogni giorno e imbevendo il pane nel vino. Quando si è rotta il femore ha iniziato ad aver paura di vivere da sola, ora vive con la terza delle sue quattro figlie e con il genero. Passa le sue giornate su un divano in cucina, in vestaglia, seduta tra tre peluche a destra e tre peluche a sinistra, così non si sente sola. Lei sbuccia le fave, impasta gli gnocchi, si punta la stufetta a led contro le gambe dicendo: «così mi brucio le gambe, come a Pinocchio», ma in realtà lo fa solo perché la luce del led le dà l’idea di calore, l’idea di Natale. La Signora Dora, madre di quattro figlie, a più di 90 anni cucina, aspetta che torna il marito della figlia dal lavoro per fargli la manicure, per passargli la crema sui calli perché «e tu mica puoi girare così». E ogni notte, ogni notte, dorme con la figlia. Il marito della figlia la prende in giro ogni sera: «Signo’, stasera il lettino degli ospiti», ma lei agita l’indice, perfettamente smaltato, più e più volte, ridendo. «Io devo tenere la mano di mia figlia». La Signora Dora, di più di 90 anni, che ha vissuto la guerra, cresciuto quattro figlie e un quantitativo spropositato di nipoti, ora vuole tornare bambina. La Signora Dora ora è solo Dora, e la notte della vigilia di Natale aspetterà l’arrivo di Babbo Natale, tenendo per mano una delle sue figlie minori, che ora le fa da mamma. Probabilmente, riceverà un altro peluche.
Qui finiscono le vostre storie: alcune le ho riportate così com’erano, altre sono diventati racconti che ho inventato del tutto partendo dai vostri dettagli, altre sono diventate favole. C’è stata una poesia, un’intermezzo letterario, e confesso: l’ultima storia è mia personale, la signora Dora è proprio la mia nonna.
All’inizio della newsletter parlavo di Hannah Arendt, di storie che ogni tanto hanno la possibilità di diventare racconti. Qui non so bene cosa sia successo, ma mi sono chiesta: ed ora? Che ce ne facciamo di questa newsletter? Tutti e tutte noi, che infondo quella stellina di malinconia ce l’abbiamo, anche quando è nascosta, le raccogliamo. Ci prendiamo tutti questi racconti e le ritrasformiamo in storie, facciamo il processo inverso di Arendt. Pensavo alle persone vere che ci sono dietro questi racconti, e a quanto siamo fortunati e fortunate nel poter conservare storie del genere, io personalmente mi sento lusingata. Ho potuto leggervi, conoscere un pezzettino di voi, è la Vigilia di Natale o magari è Natale o magari Santo Stefano (o quando leggerete questa newsletter) e sono accompagnata da tutti e tutte voi. Da storie.
Facciamo un gioco, ritorniamo a parlare del cielo nero. L’ho detto l’altro giorno alla psicologa: in questo periodo più tranquillo della mia vita, vedo la mia quotidianità come un enorme telo nero, ma nero nero, eppure non è negativo. Un cielo notturno sereno, ed ogni tanto appaiono delle stelline: la stellina della paura, quella della malinconia, della tristezza, della rabbia, e poi vanno via.
Quali sono le vostre stelline in questo cielo nero? Scrivetemele se volete, che io vi leggo sempre (e sì, leggervi è una cosa che amo fare).
Per concludere questa newsletter vorrei dire una cosa, usando una parola nuova: il Natale è maleuforico.
Quella pazza, sexy, meravigliosa testa di Deborah D’Addetta. Questo termine esce dal suo romanzo d’esordio Maleuforia, ed io non vi spiegherò il significato del termine. Lascerò che la immaginiate voi.
Detto questo, spero ci risentiremo presto lettrici e lettori, mi mancava scrivere per voi.
Sempre con immenso amore,
Adelio